All'ingresso visitatori dell'ospedale di A. si arriva attraversando viale e controviale, bisogna stare attenti alle auto che arrivano pensandosi in tangenziale, ma ci si deve buttare con piglio sicuro sulle strisce, è una prova di forza, non bisogna farsi intimorire dai fari.
Si entra per una rampa stretta, sotto una tettoia, devi fermarti per far passare chi scende, due persone faticano a passare a tempo.
La prima accoglienza, una volta varcato il cancelletto sulla rampa, viene dall'odore acre del fumo che impregna le pareti e lo stucco sul muro esterno, l'odore delle preoccupazioni, del dolore, della rassegnazione.
E poi entri e c'è il disinfettante.
Il disinfettante ti accompagna per i corridoi anni cinquanta, per quel grigio solido che s'appoggia alle pareti, sulle le finestre con gli infissi bianchi, sui pavimenti lisci, sulle scale a che si arrampicano attorno all'ascensore, sugli scalini sempre grigi.
Sono tutti uguali gli ospedali, tranne quelli nuovissimi, che sono moderni, asettici, privi di storia e paura.
Anche i corridoi dei reparti sono tutti uguali, tutte le infermiere con la divisa di cotone, gli zoccoli bianchi, i capelli arruffati, i medici seriosi e preoccupati.
E poi ci sono le persone.
Gli altri.
Quelli che vedi e non sei mai tu, quelli da cui distogli lo sguardo perché ti inventi un pudore che è in realtà il timore che a te non capiti niente del genere, come se la vista lo trasmettesse.
E gli altri sono anche i parenti degli altri ricoverati, che stanno lì, con gli occhi segnati e la preoccupazione nelle mani, che aspettano, sempre.
Una visita, un referto, una flebo.
Non mi piace l'ospedale di A.
Non mi piace nessun ospedale.
Non mi piace essere un'altra.
Si entra per una rampa stretta, sotto una tettoia, devi fermarti per far passare chi scende, due persone faticano a passare a tempo.
La prima accoglienza, una volta varcato il cancelletto sulla rampa, viene dall'odore acre del fumo che impregna le pareti e lo stucco sul muro esterno, l'odore delle preoccupazioni, del dolore, della rassegnazione.
E poi entri e c'è il disinfettante.
Il disinfettante ti accompagna per i corridoi anni cinquanta, per quel grigio solido che s'appoggia alle pareti, sulle le finestre con gli infissi bianchi, sui pavimenti lisci, sulle scale a che si arrampicano attorno all'ascensore, sugli scalini sempre grigi.
Sono tutti uguali gli ospedali, tranne quelli nuovissimi, che sono moderni, asettici, privi di storia e paura.
Anche i corridoi dei reparti sono tutti uguali, tutte le infermiere con la divisa di cotone, gli zoccoli bianchi, i capelli arruffati, i medici seriosi e preoccupati.
E poi ci sono le persone.
Gli altri.
Quelli che vedi e non sei mai tu, quelli da cui distogli lo sguardo perché ti inventi un pudore che è in realtà il timore che a te non capiti niente del genere, come se la vista lo trasmettesse.
E gli altri sono anche i parenti degli altri ricoverati, che stanno lì, con gli occhi segnati e la preoccupazione nelle mani, che aspettano, sempre.
Una visita, un referto, una flebo.
Non mi piace l'ospedale di A.
Non mi piace nessun ospedale.
Non mi piace essere un'altra.
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