lunedì 14 marzo 2011

Icicle

All'ingresso visitatori  dell'ospedale di A. si arriva attraversando viale e controviale, bisogna stare attenti alle auto che arrivano pensandosi in tangenziale, ma ci si deve buttare con piglio sicuro sulle strisce, è una prova di forza, non bisogna farsi intimorire dai fari.
Si entra per una rampa stretta, sotto una tettoia, devi fermarti per far passare chi scende, due persone faticano a passare a tempo.
La prima accoglienza, una volta varcato il cancelletto sulla rampa, viene dall'odore acre del fumo che impregna le pareti e lo stucco sul muro esterno, l'odore delle preoccupazioni, del dolore, della rassegnazione.
E poi entri e c'è il disinfettante.
Il disinfettante ti accompagna per i corridoi anni cinquanta, per quel grigio solido che s'appoggia alle pareti, sulle le finestre con gli infissi bianchi, sui pavimenti lisci, sulle scale a che si arrampicano attorno all'ascensore, sugli scalini sempre grigi.
Sono tutti uguali gli ospedali, tranne quelli nuovissimi, che sono moderni, asettici, privi di storia e paura.
Anche i corridoi dei reparti sono tutti uguali, tutte le infermiere con la divisa di cotone, gli zoccoli bianchi, i capelli arruffati, i medici seriosi e preoccupati.
E poi ci sono le persone.
Gli altri.
Quelli che vedi e non sei mai tu, quelli da cui distogli lo sguardo perché ti inventi un pudore che è in realtà il timore che a te non capiti niente del genere, come se la vista lo trasmettesse.
E gli altri sono anche i parenti degli altri ricoverati, che stanno lì, con gli occhi segnati e la preoccupazione nelle mani, che aspettano, sempre.
Una visita, un referto, una flebo.
Non mi piace l'ospedale di A.
Non mi piace nessun ospedale.
Non mi piace essere un'altra.


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