Visualizzazione post con etichetta vita da single. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta vita da single. Mostra tutti i post

martedì 18 giugno 2013

I should have known

Ovvero, cosa è lecito testare sugli animali.

Qualche giorno fa finalmente, dopo scarse fortune procurate dalla mia cronica timidezza, incontro un giovane interessante essere di sesso opposto con cui esco una sera. 
La serata va bene, molto carina, molto primo appuntamento: cena, passeggiata tenendosi per mano, a bere ancora qualcosa, accompagnata a casa, bacio sulla soglia - e ci sentiamo spesso i giorni a venire in cui però il giovane è malato.
Sabato sera ritorna, si cena qui, lui sempre malato ma fa comunque questi 30 km che ci separano per vedersi e li ripercorre poi dopo cena per trascinarsi a casa nel suo letto di morte (gli uomini e la tragicità dell'influenza) per cui mi sento abbastanza autorizzata ad essere ottimista.
Domenica all'ora di pranzo ci sentiamo come stabilito, e lui mi dice che ci ha pensato, che non pensa possa funzionare tra noi perché non c'è chimica.
Evidentemente non serve la chimica per schiantarmi tre etti di lingua in bocca.
Fatto sta che a lui piaceva Spiderman e il mio supereroe preferito è sempre stato Batman, perché è passionale e non è obbligato dai superpoteri che si trova tra le costole ad essere un supereroe, non soccombe agli eventi, lui lo è perché lo ha scelto. 
E poi io adoravo la serie tv degli anni 60, con tutti quei "POW!" e le mutande sopra la calzamaglia.
Spiderman invece è un supereroe un po' paraculo: fondamentalmente uno sfigato che per caso si ritrova figo di colpo. Una vittima degli eventi. Tutti bravi a fare i fenomeni quando un ragno ci elettrizza la vita.
E poi ad Harry non è piaciuto.
Harry è il gatto dei miei vicini che ho affascinato con il mio affetto, una coperta in pile sempre disponibile sul divano e tanto cibo buono che spesso viene a casa mia per dormire in santa pace, dato che convive con altri due gatti che credo gli diano del filo da torcere.
Harry ha sedici anni, è un gatto di grande esperienza, capisce che aria tira con la punta delle vibrisse, e il giovane non gli è andato a genio subito, appena è entrato dal cancello.

Avrei dovuto tenerne conto.


Or what it's legitimate to be tested on animals.

Finally, a few days ago, after very low luck caused by my chronic shyness, I met a young interesting human being of opposite sex to go on a date with.
The night went well, very nice, very "first date": dinner, walk hand in hand, something to drink afterward, he walks me home and we kiss on the doorstep. We heard from each other quite often for the next days when he is ill. 
Saturday night he came back, we had dinner here, he was still sick, but he drove the 30 km between us anyway and drove back after dinner to his deathbed (tragic men's flu) so I feel quite authorized to be optimistic.
At lunch time, on Sunday, we heard from each other as agreed, and he told me that the thought about it, that he thinks that what we have isn't going to work because there is no chemistry.
Evidently, chemistry is overrated when you smash three hundred grams of tongue in my mouth.
The point is that he likes Spiderman, and my favourite superhero has always been Batman, because he is passionate and he isn't forced by superpowers found on his way to be a superhero, he doesn't give in with the events, he is a superhero because he chose to be one.
And I adored the 60's tv serie with all those "POW!" and the panties over the tights.
Spiderman, on the other side, he is a bit cheeky: fundamentally, he is a nerd that by chance finds himself cool. A victim of events. We're all good to be phenomenal when a spider makes our life electric.
And Harry didn't like him.
Harry is my neighbour's cat, that I charmed with my love, a pile blanket available on the couch and loads of good food and that often comes to my house to sleep in peace, because he lives with two other cats that I believe are quite difficult to live with.
Harry is 16, he is very experienced, he understand how it goes with the tip of his feelers, and the young didn't suit him immediately he came in from the gate.
I should have considered it.



sabato 10 dicembre 2011

Candy perfume girl

 Allora, voglio rassicurare quelli che si chiedono come stia andando qui, nella perfida Albione: va tutto bene, serenamente, placidamente bene.
Placidamente perché questo è il paese dell'attesa: si aspetta l'autobus (in orario), si aspetta il proprio turno in una coda ordinata, si rimane sospesi all'attimo prima che la vita cominci, per cui ho pensato che sarebbe carino mettere a frutto questo tempo regalatomi da Sua Maestà per dare concretezza alle mie risorse.
Ancora non so bene come, ma quest'iniezione di ottimismo inaspettata non va sprecata così, senza cogliere l'attimo, senza approfittare del 3 x 2 al reparto soluzioni alternative che questo paese mi offre.
Per il resto.. beh, sì, casa mi manca, mi mancano le persone, mi mancano le mie comodità quotidiane, mi manca il mio gatto che a quanto mi dicono è lievitato come il panettone verso il 23 dicembre, ma no, non ci torno per Natale, sono appena arrivata, non voglio mica fare la felicità di Ryanair e l'infelicità del mio conto in banca tutto nuovo.
Vivo con gente buffa, ovviamente. Una ragazza francese che dopo sei anni sopravvissuta qui forse parte per Miami o per la Thailandia, una coppia di ragazzi di cui percepisco la presenza giusto ogni tanto, un'ingegnere elettronico indiana incapace di cucinare e la famiglia Gigantor.
La famiglia Gigantor è un terzetto, padre, madre e figlio, che mi ricorda tanto la favola dei tre orsi, solo che io non sono Riccioli d'oro e non rubo loro la minestra o dormo nei loro letti.
Li chiamo così perché sono giganti: non che dal mio metro e una carota il resto del mondo non sia già più alto, ma questi sono davvero enormi. Tutti e tre. E sono sempre molto circospetti.
La mamma è già più socevole, saluta quando entra e quando esce dalla cucina e ogni tanto facciamo due parole, il figlio mi chiama “madam” e vorrei tanto prenderlo a martellate quando lo fa, ma non posso, è gigante, anche se sembra terrorizzato dal mio avvicinarmi, e poi c'è lui, papà Gigantor, l'uomo con più opinioni della terra.
Lui odia stare in Gran Bretagna, ma non ho capito bene perché non può andarsene, per cui si lagna. E si lagna del vivere in comune. E si lagna del fatto che gli altri siano sporchi – non che lui sia l'emblema dell'igiene, eh. E si lagna che qui la gente è antipatica e maleducata. E si lagna che nessuno gli trova lavoro. E si lagna che fa freddo.
Quando non si lagna, esamina quello che fai: il primo giorno in cui ho portato fuori la mia spazzatura, ha controllato che facessi la differenziata correttamente.
E' lo stesso genio che non capisce perché io faccia il brodo nel pentolino e non a microonde. O perché io mi ostini a cuicinare. O perché io mangi “solo” il salmone con il pane quando potrei sfondarmi di salsicce fritte.
A parte questo, tutto bene.

venerdì 18 novembre 2011

Silent All These Years

Sono qui per raccontare una storia.
Una storia piccola, di molto tempo fa.
Una storia che non ho mai raccontato a nessuno fino ad ora.
Una storia che inizia, come tutte le mie storie di qualche interesse, con un viaggio.

1995 - Jerez de la Frontera, Spagna.
Non so come sia ora, ma io mi ricordo una città assolata, calda e chiassosa.
Mi ricordo le palme, alti palazzi grigi e un vicolo in cui dei ragazzi danesi ubriachi importunavano le passanti.
Mi ricordo la terra riarsa fuori dal centro città, dove tra le isole di costruzioni c'erano solo cespugli e le nostre facce sudate.
Mi ricordo le spedizioni a comprare il ghiaccio in sacchettoni e i botéllons nei parchi con la musica improvvisata e la voglia di vivere spagnola.

A Jerez c'era un centro commerciale Continente dove ho comprato due cose che ancora mi accompagnano.
Una copia di "Little Earthquakes" di Tori Amos in vinile e un quaderno di Snoopy.
Tornata a casa, credo di aver ascoltato immediatamente il disco, per poi dimenticarmene e riscoprirlo anni dopo, mentre ho messo via il quaderno. 
Ho deciso di lasciarlo così, intonso, perché, al contrario di quel che potrebbe sembrare, o, addirittura in perfetta coerenza con la mia immagine, ho un animo profondamente romantico.
A quindici anni ho comprato un quaderno che avrei usato con una persona speciale, con il mio "lui" speciale.
Già propensa alla fantasticheria interstellare, avevo quest'idea di trovare un ragazzo a breve, di innamorarmene, di essere amata, e di aver bisogno di uno spazio solo nostro per scambiarci parole esclusive, preziose, di necessitare di una testimonianza concreta dei nostri sguardi e dei nostri sogni.

2011 - BigCake, Provincia borderline, appena sotto il grande fiume, Italia

La casa tace e sono le tre del mattino.
Mi fumo l'ultima e vado a dormire, tanto quel che fatto è fatto.
La valigia è aperta ma ci metto un secondo a chiuderla domattina.
Non devo dimenticarmi i libri, non devo dimenticarmi i biglietti, la carta d'identità.
Domani è il primo giorno della mia nuova vita, non ci posso arrivare senza un pezzo.
Ho bisogno di qualcosa su cui scrivere. Che cosa avrò da scrivere ancora, poi, lo so solo io. Ho il portatile, in Gran Bretagna venderanno quaderni e penne, no? No, voglio qualcosa che sia mio.

Dorme sotto una trousse piena di smalti, Snoopy. E' ancora lì che aspetta di essere usato. In valigia, subito.

A volerla vedere, c'è una metafora in tutto questo.
Forse due. Magari tre. Quattro, infondo.

Questo quaderno sono io. Sono io che aspetto di vivere.
Oppure è la mia vita sentimentale intonsa.
Oppure è la prova che di uomini interessanti non ce ne sono.
Oppure, e io sono propensa a pensarla così, è solo un quaderno che è ora di usare, perché le parole sono importanti [cit.]

mercoledì 10 agosto 2011

Cornflake girl

Un anno fa ero esattamente al punto in cui sono ora: in procinto di partire.
E vado nello stesso posto!

I sogni sono rimasti gli stessi.. ma non mi sento come cristallizzata. C'è stata un'evoluzione, una liberazione: più libri letti, alcune cose imparate, il gatto è cresciuto.

Ora sono ancora seduta sul divano, è la prima volta che parto tanto tardi da potermi godere il pranzo a casa e un paio di puntate di serial tv prima del volo.

La vera differenza, rispetto all'anno scorso, è che non so davvero se torno a questo giro.



sabato 6 agosto 2011

Diamonds on the inside

Mi piace Ben Harper, mi piace così tanto da decidere di andare a sentirlo suonare all'Arena Civica a Milano, qualche settimana fa.
Scrive canzoni meravigliose, poetiche e piene di energia, con testi impegnati, mai banali: lo odio.
Lo odio perché nella realtà un uomo così non esiste: impegnato, sensibile, con una voce pazzesca e un sorriso luminoso, il tutto montato su un corpo da leggero malore.
Non esiste uno che puoi trovare solamente in un letto bianco, baciato dall'alba che accarezza i capelli della sua donna e l'abbraccia e le sussurra quelle frasi dolci, piene di amore e di speranza.
Non esiste nel mondo reale, rassegnamoci, il mondo reale è pieno di stronzi.
Perché io non voglio pensare che Ben Harper al microfono, alla chitarra, all'ukulele suoni e canti come fa e poi possa macchinare piani diabolici e di sconfinata presunzione a danno di una donna, lui ama la sua donna, lui le dice che niente suona come sentire il suo nome (“Waiting for you”), lui la celebra, dannazione!
Non voglio pensare che le racconti fregnacce per portarsela a letto, voglio dire, lui è Ben Harper, gli basta alzare un sopracciglio, ma quel sopracciglio pieno di parole meravigliose, e di musica suadente e.
Perciò ho arbitrariamente deciso che no, Ben Harper queste cose non le fa, che Ben Harper è corretto, maturo, generoso e rispettoso della sua donna, che non ha niente a che fare con la realtà terrena, Ben Harper vive nel limbo degli uomini irreali.
Purtroppo, molto reali e molto cafoni, invece, erano i geni attorno al mio gruppo-vacanze Piemonte (io, il mio Pigbrother, la cognatuzza, l'amica della mia cognatuzza, e il mio bioamico S.) che hanno sprecato un'ennesima, ne sono certa, ottima occasione per fare bella figura tacendo, stando a  chiacchierare di minchiate per metà concerto, al paio di quelli che sul pezzo cantato senza musica e senza microfono da Ben “polmoni d'acciaio” Harper  hanno intonato canzoncine e coretti da asilo nido.
E poi ti chiedi perché le donne nella realtà sono disilluse.



mercoledì 13 luglio 2011

Madness of love

Di jazz capisco veramente poco, in generale, di musica “alta” capisco poco: jazz, blues, classica.. Sono mari quasi del tutto inesplorati per quanto mi riguarda.
Ho un buon istinto, però, per i concerti e finora quelli che ho visto decidendo di pancia e non di testa mi hanno dato soddisfazioni, per cui ho pensato bene di reclutare due socie che potessero apprezzare il genere e mi sono regalata Raphael Gualazzi.
Avevo un po' di preconcetti, certo: sarà sicuramente il solito artista snob e freddo sul palco, ci farà cadere dall'alto la sua musica eletta e neanche degnerà di uno sguardo questo pubblico di provincia, questo pubblico di provincia sarà freddo e insensibile perché si sa, la provincia inaridisce.
Avevo torto marcio.
Il concerto non è stato un concerto ma una festa, aveva quell'umore che ti davano gli Aristogatti che suonavano “Tutti quanti vogliono fare il jazz” e lui, intimidito dalle attenzioni tra un pezzo e l'altro, sembrava trasformarsi una volta poggiate le dita sul pianoforte, cambiare faccia, attraversato dall'energia e dalla scarica di adrenalina.
Anche il pubblico, con i propri tempi, s'è scaldato: quando il gruppo è rientrato per la seconda volta timidamente s'è alzato ad applaudire, file di signore con la messinpiega e la camicetta di seta emozionate, branchi di paperelle ridacchianti davanti alla transenna quando è uscito dal camerino per firmare qualche autografo.



lunedì 20 giugno 2011

Monkey wrench

Ad un certo punto della mia adolescenza immusonita ho avuto la brillante idea di infilarmi in una camicia di flanella a quadrettoni bianchi e blu, di indossare jeans sdruciti e vecchie adidas distrutte, tralasciare il buonumore e struggermi perché non avrei potuto più acquistare album nuovi dei Nirvana.
Già, s'erano sciolti.
Neanche darmi il gusto dell'attesa.
Un bel giorno, Cobain decide di scappare dalla clinica in cui era stato mandato a disintossicarsi e rifugiarsi nel patio di casa, canna del fucile tra le otturazioni, e via, anni di buona musica distribuiti sul soffitto.
Vedova inconsolata e inconsolabile, vago per negozi di musica più o meno forniti e trovo un nome famigliare.
Dove l'ho già sentito? Dove ho già visto questa copertina beigiolina, questa specie di pistola? Lo compro.

A costo di riversarmi addosso l'autogol dell'atteggiamento da vecchia befana, ricorderò che i tempi erano diversi: c'erano i negozi di dischi, la musica si acquistava sotto forma di ciddì, operazione che prevedeva l'interazione verbale e fisica con un commesso, il pagamento attraverso cartamoneta e il ritorno a casa con la custodia ancora chiusa nella plastica, magari in bicicletta, per poi chiudere fuori il mondo dalla stanza e gustarsi il primo ascolto tramite un arnese di rara bruttezza qual era lo stereo.
Sto parlando più o meno del 1996.

A pensarci mi sembrano passate ere geologiche, neanche secoli: (fortunatamente) ho abbandonato la flanella in tutte le sue declinazioni, ormai butto i jeans lisi e strappati e con malcelata difficoltà anche le vecchie adidas. Sono cresciuta, insomma.
Ma loro ci sono, sempre.
Per questo, in attesa di una conferma di orario da parte del mio socio a delinquere, nel delirio di una telefonata di novità impellenti, quando la Zia Isa mi dice che il socio non mi avrebbe raggiunta ("bellastella, ha mal di denti") decido che sarei entrata lo stesso, che avrei tralasciato ogni indugio e che avrei visto comunque il concerto, anche da sola, senza soldi e affamata.
Loro ci sono da sempre, mi devo fare coraggio: borsa a tracolla entro in quello che a prima occhiata è chiaramente un parcheggio riadattato ad "arena concerti", con il cemento che da la sola impressione di aver visto momenti di raro calore nell'andare del pomeriggio, idea chiaramente disegnata sulle facce stravolte di chi dorme a terra.
I primi venti minuti sono i peggiori: sono da sola, non conosco nessuno, la gente sembra super presa bene e io mi sento la zia sfigata di tutti quei ragazzetti a petto nudo o in costume che si aggirano ridendo per il parcheggio e non faccio che ripetermi "belìn che sfigata che sei" con il tipico accento genovese che affiora quando penso di me cose brutte.
Poi prendo la decisione giusta: bere una birretta.
Non pubblicizzo l'alcol e in periodi di lucidità mentale quella neanche avrebbe il diritto di chiamarsi "birra" semmai "sciacquatura di piatti alcolica" ma sono sola, triste, non ho amici e nessuno con cui condividere quello che per me sarà il concerto dell'anno, cosa dovevo fare a parte aspettare di vedere che l'unico più patetico di me avrebbe suonato con il suo bel petto di pollo nudo per penultimo dall'alto dei suoi sessantacinque anni biondi? Andare a casa, triste e beffata dalla sfiga nera?
Onestamente, col cazzo.
Ho preso una birra gelata per una cifra spropositata, mi sono messa in mezzo alla folla e ho assaporato tutto il gusto dell'attesa.
Prima i Social Distortion, poi Iggy Pop e poi loro, la magia, la meraviglia, il piacere auditivo e orale, la carica erotica che è esplosa con l'intro di "Burning Bridges".


sabato 11 giugno 2011

Charmless man

Ieri sera sono stata abbordata scendendo dalla metropolitana.
Questo mi guarda sottecchi, sul treno, probabilmente convinto che io stia ricambiando il suo sguardo e non cercando di radiografare il manzo al suo fianco, molto carino nonostante una vaga somiglianza con Paul Phoenix, e quando scende mi si avvicina, cambia idea, sale le scale lentamente.. Io cerco di andare oltre, ma il chiacchierare di due galline fianco a fianco mi impedisce la fuga.
E' stata una giornata lunga, sono le nove e mezza di sera, ho fame, ho sete, ho sonno, l'universo mi da fastidio.
Non riesco a scartare di lato il pollaio per cui l'abbordatore mi si avvicina e attacca bottone.
E' anche gentile, glielo riconosco.
Parliamo un pochino mentre io vado verso il binario e penso che sono lusingata, certo, ma vorrei tanto avesse da fare.
Evidentemente no, dato che mi accompagna fino al treno, cercando di convincermi che è l'uomo della mia vita e che non mi lascerà mai.
Certo, mi conosci da cinquecento metri, perché dovresti lasciarmi?
A nulla valgono le mie ragioni a non volere il suo numero: gli piaccio, ha deciso che staremo insieme tutta la vita, che posso rinunciare ai miei progetti - un po' romanzati, lo ammetto - che non sarà una delusione, che non staremo insieme "solo un anno" ma che non mi lascerà mai.
Neanche quando gli faccio presente che è un po' prematuro prendersi questo impegno cede, anzi, è un po' piccato perché non gli do fiducia e arriva addirittura allo stupore quando gli dico di non volere un fidanzato.
Cosa cosa cosa??? Non è possibile!
Tenta ancora qualche volta di convincermi a fidanzarci, mi accompagna a prendere una bottiglietta d'acqua e ci separiamo,  lui per la sua casa in prestito ad Assago, io per il mio viaggio verso casa.
Sarebbe meraviglioso fosse finita qui: io che addirittura scrivo un post per celebrare l'evento e lui che aspetta (in vano, confesso) che io lo chiami probabilmente fino alla prossima donna della sua vita sulla metro verde.
Invece no, scovo 5€ accartocciate nella borsa e decido che mi premierò con una focaccina, mi avvio verso la macchinetta sul binario 19 e lo vedo che torna e riparte alla carica.
Tu mi piaci, staremo insieme per sempre, ma perché vivi da sola? vengo io a vivere con te (eeeh?! ma io sto BENE da sola! non ti voglio!), ma io sono bravo, ne vale la pena, non ti pentirai.. pare un disco rotto che fino a quel momento sembrava simpatico, ora inizia ad infastidirmi, anche perché mi tocca. Io odio essere toccata, soprattutto da chi non conosco e che mi sta impedendo di raggiungere il mio treno e addormentarmi alla seconda riga di Harry Potter.
Cerco di sganciarlo, e sale sul treno con me, si siede davanti a me a patto che io abbassi la voce e riparte con il sermone sulla nostra favolosa vita insieme,  discorsone che io cerco di tagliare facendogli presente che sta diventando fastidioso.
Ora, non sono una stronza.
O meglio, lo sono, parecchio, ma non del tipo che ti ignora se le rivolgi la parola sulla metropolitana.
Neanche di quelle che  ti mandano affanculo in malo modo se non interessate.
Sono gentile, sono cortese, sto al gioco, sono ironica ma non apprezzo gli sconfinamenti.
Quindi.. perché insistere? Perché pensare che se sarai abbastanza cocciuto io ti cambierò idea? Cosa ti fa pensare che l'essere tedioso ti farà guadagnare i miei favori?
Devo forse pensare che in quanto donna mi ritieni incapace di prendere una decisione diversa da quella che tu prenderesti per me?
Ti do forse l'impressione di non aver capito da che parte sono voltata e di aver bisogno una costante e martellante pressione per dirigermi verso la giusta via?
Se ti dico "no", è "no", non è un "no che vuol dire sì", non è un "no ma se insisti diventa sì", non è un "no perché voglio pensare di essere capace di dirtelo ma sotto sotto è un sì", è un "no" che non cambia idea perché insisti, anzi, è ancora più "no" se insisti.


venerdì 20 maggio 2011

Kobra

Non sopporto i giochi di strategia.
Risiko, Monopoli e compagnia cantante mi urtano.
Trovo siano una fatica inutile, un impiego di talenti sprecato, una palese perdita di tempo ed energia.
Figuriamoci le strategie nelle relazioni donna-uomo! Non servono, per il più semplice dei motivi: le donne ragionano in un modo diverso. Non meglio, non peggio, solo differente.
Altrimenti ci capiremmo.

Prima di vivere con lei, vivevo in un appartamento brutto in una zona brutta di Parma con due coinquiline brutte che di questi giochetti erano grandi teorizzatrici.
Ricordo l’analisi logica di sms maschili per me perfettamente chiari nelle intenzioni per estrapolare un messaggio tra le righe ipoteticamente amoroso, certamente sessuale.
Ancora mi chiedo quale sia il sottinteso sessuale in “Grazie, vengo volentieri a cena domani sera”.
E' che io non li capisco, proprio non ci arrivo. Non riesco a comprendere cosa cambi nella percezione di chi sta dall'altra parte se una telefonata arriva prima o dopo, se l'invito è a pranzo o a cena, se la proposta è diretta o lasciata solo intendere.
Mi sento Forrest Gump alle volte, con me bisogna fare discorsi semplici.
Mi piaci/non mi piaci.
Niente "ora ti lascio ad intendere che mi piaci ma senza darti troppe illusioni per cui mi faccio desiderare anche se ogni tanto qualcosa ti concedo così tu..", niente "meglio se si fa sentire lui prima ma magari provo a fargli uno squillo tanto per vedere se risponde e se risponde riattacco ma con il numero nascosto così non mi richiama anche se vorrei sentirlo", niente "gli mando un sms facendo finta di sbagliare numero e vedo cosa mi risponde e come mi risponde se usa 'ciao' oppure 'hey tesoro' o se neanche saluta".
A che servono? Io voglio messaggi chiari, senza giri di parole, arrivare al punto, diretti.
Voglio che si parli in STAMPATELLO con me, che si parli come si parla ad un bambino di cinque anni [cit.].

Ora, io sono una grande saggia delle vite degli altri, come sempre dispenso ottimi consigli ma mica li so applicare quando si tratta di me e soprattutto quando si tratta di dover ricevere una certa telefonata.
Perché io non aspetto le telefonate, mi fa impazzire aspettare le telefonate, non voglio dipendere dalle telefonate.
Piuttosto telefono io.
Invece no, sconsigliato. Non t'azzardare a prendere in mano quel telefono, si farà sentire lui.
E se non si fa sentire?
Ma io devo restare qui a tritarmi il fegato, a soffriggermi il cervello, a grigliarmi lo stomaco perché forse si farà sentire?! Nooo, io non voglio, non voglio spendere il mio tempo nell'incertezza, nel dubbio, nell'anarchia delle informazioni. 
Io voglio sapere, voglio sapere subito se c'è trippa per gatti o se 'ste bestie devono morir di fame e di stenti. 
Non importa quanto duro sia, io voglio sapere. Subito.
Invece no, sembra un film con Nick Nolte - ancora 48 ore.


martedì 17 maggio 2011

Kings and Queens

Temo che il mio piccolo K. non avrà mai i voti alti in bontà, il cinismo mi abbraccia e mi pervade come il freddo di gennaio in Pianura Padana, come la nebbia pavese le mattine autunnali, ce l'ho addosso tanto da sentirlo come un'indissolubile parte di me, un gemello siamese che abita il retro del mio orecchio.
Se non altro, questo mi permette una visione distaccata, acida e ovviamente parziale delle vite altrui, sulle quali vengo interrogata come oracolo di pungente sarcasmo e liquido scetticismo.
Il fatto è che io inizio sempre con le migliori intenzioni ad ascoltare i report dettagliati sulle relazioni delle mie amiche, ma circa a metà mi si gira la testa al contrario, la faccia diventa verde e parlo con la eco di tre voci (mai visto l'Esorcista?), non è colpa mia, vengo posseduta da un forza che sovrasta la mia volontà e che inizia a mostrarmi un vortice di immagini: il Kraken, Poseidone, un tornado, il film "Twister", il combattimento della Sposa contro gli 88 folli.. E al centro del vortice (che sia marino o d'aria o di mazze ferrate) c'è sempre un lui immolato.
L'incompreso che si lagna del ruolo in cui l'ostinazione femminile a dare definizioni di parole e azioni lo relega.
Immagini spazzate via da un bel "mavaffanculovà".


Troppo spesso mi capita di sentire sfoghi sulla superficiale grettezza del maschio medio trincerato dietro alla sua inettitudine nell'agire, autoassoltosi dicendo che è un suo difetto e che se vuoi il pacchetto te lo pigli completo: almeno uno s'è accorto di non essere il dono del cielo al genere femminile?
Uno che abbia capito di non essere la più agognata delle benedizioni nella vita di una donna?
Voleva anche un mazzo di fiori - ma non quelli del pakistano, eh, che quelli non valgono - con un bigliettino "grazie grazie nostra piccola benedizione eterea"?


E' chiaro che non voglio generalizzare, ma ho trent'anni, la mia dose di fenomeni da baraccone me la son goduta, il très d'union sembra sempre essere la presunzione a sapere che quello che pensano è giusto e che il resto del mondo ha dei seri difetti di comprensione in caso di opinione contraria alla loro.
Eddài, nessuno di voi, bei tronchetti della felicità pelosina, pensa alla moderazione dei termini? All'umiltà della propria persona?
Mi è bastato l'aver conversato diffusamente con lei incappata nell'ultimo degli inopportuni per vincere un buono per farmi annodare le budella: fino a che punto è concesso lo spreco della parola "dignità" applicata ad un'autoanalisi maschile? Ma pensano mai, i maschi, questi meravigliosi bonbon alla crema, che la discrepanza tra cosa pensano di se stessi e la realtà è una fossa delle Marianne di mezze misure?

martedì 12 aprile 2011

Vieni a ballare in Puglia

Sto guardando uno spicchio di finestra verso il cielo giallino della metropoli tentacolare e il temporale para-estivo che ci ha regalato questo pomeriggio pare, nella mia considerazione egocentrica dell'universo, un segno chiaro dell'eccezionalità del mio weekend. 
 
Sono uscita.
 
Non una ma per ben due sere di seguito.
Non solo a mangiare, non solo a bere qualcosa ma addirittura a ballare.
 
La dinamica della mia zitellaggine degli ultimi mesi mi aveva permesso di dedicare maggiore attenzione alle attività collaterali quali la cena sul divano, la zuppa sperimentale, la visita al nipotame, la sveglia di domenica mattina, condizione ideale a voler svasare tutti i fiori del circondario, ma non per me, nota terrorista internazionale dell'orticultura, per cui ho messo da parte zappetta e rastrelletto e mi sono preparata a dovere.
Lei ne ha fatto ironie, ma la questione il venerdì sera s'era fatta seria - come vestirsi per una serata gotica?
Alla fine, razzolando come una gallina epilettica nella mia cabina-armadio-soppalco-lettoikea, ho trovato la soluzione indolore - abito nero, calze nere, stivali neri, trucco a panda - e l'ho assolta così, sentendomi un po' troppo a rischio polmonite e un po' troppo poco vestita, per poi arrivare al locale e scoprire in me un gusto monacale, quasi, alla vista di una micromutanda in pelle e una canotta di rete, con due stelline sui capezzoli, a mo' di censura da cartone animato giapponese.
 
Sabato sera è andata un po' più liscia, compleanno di A., amica di vecchia data e compagna di scuola e grande amante della fiesta. Parto dalla sede dell'aperitivo dicendo: "Io prendo la macchina che torno presto", come mi è stato ricordato alle 5.00 della mattina successiva, rientrati in quello stesso parcheggio dopo il cena-ballare al Messicano di V.
 
Il Messicano di V. è un locale che ho amato molto, ne sono certa. E' nella cartelletta con il cuore dei locali che ricordo nel mio passato e nel mio trapassato, anche se non ho memoria se non una canzone dei Ramones ballata con gente che neanche mi saluta più. Ah, i chupitos. Ma dopo i chupitos c'è sempre il buio.
 
Fatto sta che vado, ceno, ballo, mi diverto, bevo, fumo, ballo, mi diverto, fumo, ballo e intravedo A.
A. è un mezzo sorriso, diciamo. A. è il vestirsi da vampira una sera di gennaio. A. è prendere il treno ubriaca di guinnes
Ma A. è anche "tu sei diversa, sei una brava ragazza". A. è anche "ti porto a casa così domani non devo spiegare agli amici del treno chi sei". 

Mannò, non può essere lui, non è questo il suo genere di locale, figurati.
Poi non sono sicura di volerlo incontrare.
Poi dai, meglio così.
 
3.. 2.. 1..
 
Vodkatonic?


martedì 15 febbraio 2011

Surfin' Safari

Vi è mai capitato di fare un viaggio in treno leggermente ubriachi? Con la testa leggera lasciarsi cullare dalle leggere oscillazioni del vagone?
Ho preso una decisione, ubriaca e cullata da un treno che mi riportava nell'uggiosa cittadina borderline, mentre mi godevo il borbottio in sottofondo di un ubriaco che pensava che fossimo in metropolitana: quest'anno sarà l'anno delle concessioni.
Sono arrivata su quel treno pervasa di benessere per una concessione che mi sono fatta, quindi, perché non continuare sulla morbida china del consenso?
Il rischio più grande è di farsi prendere dall'entusiasmo del piacere effimero e farsi sfuggire di mano la situazione, lasciarla franare nel baratro dell'eccesso licenzioso e vizioso, o vederla implodere in un danno strutturale, certo.
Ma tra l'austera sobrietà e il collasso delirante le sfumature sono molteplici e le possibilità numerose, infondo sono un po' annoiata da questo mia abilità conservativa nei confronti del resto del mondo, di questo ostinato pudore decoroso, di questa asettica riservatezza.
Predico bene ma razzolo male, in sostanza.
Agli altri concedo il beneficio del divertimento, dell'amoralità ludica e io me ne privo senza strappi alla regola, ancora lì ad ascoltare il mio autogiudice interno, la vocina nella mia testa che non mi dirà di prendere a randellate il dirimpettaio, certo, ma che scuoterà il testone legnoso ad ogni prospettiva sorridente seppur equivoca che mi si presenterà davanti.
Sarà il caso che la versione inacidita di Higgins che mi abita dentro si rifugi in piscina con una batida in mano e Sansone e Apollo al suo fianco perché io salterò sulla Ferrari, ingranerò la marcia e sparirò all'orizzonte.


giovedì 3 febbraio 2011

Puramente casuale

Febbraio è un mese critico per me, un mese difficile, complicato.
Me ne sono accorta la scorsa settimana, ho avuto un'epifania guardando il profilo dell' esselunga di V.: era appoggiato, piatto e liscio, contro un cielo nuvoloso e freddo, acceso con quell'ultima abat-jour che è il sole delle cinque e un quarto di gennaio.
La rivelazione che mi ha fatto l'esselunga è stata proprio quel cielo chiaro, quelle nuvole visibili e quella consapevolezza che le giornate s'allungano ogni giorno di più.
Bella scoperta.
Sì, certo, ma io sono inquieta, nervosa, friggo come una polpetta.
Friggo perché è come se la luce stiracchiandosi finalmente arrivasse a toccarmi, a spingermi, a prendermi a calci perché io faccia qualcosa, perché smetta di restare qui con le mani in mano a sgranare questi giorni umidicci mentre penso che potrei essere a.
A casa a studiare, a vedere un film, a fare il bucato.
A bere un caffé con un'amica, a vedere un museo, a fare l'amore.
A Suva in un parco, a Perth a guardare il Qeensland nelle notizie della sera, a Wellington a prendere un biglietto per un traghetto.
Ora, quella dell'esselunga di V. è una rivelazione farlocca, so anche io che vorrei tutte queste cose in ordine sparso, non mi serve il cielo color ratto sbiadito, ho le mie manie masochiste, come visitare il sito di Star Alliance dove mi preparo il preventivo online di un biglietto per il giro del mondo, o ricordare alla mia amica Fra che dobbiamo andare alle Hawaii.
Ma febbraio ogni anno mi ricorda che l'inverno finisce e che è tempo di moversi, di fare, e io non lo sopporto più.
Possiamo saltarlo e andare direttamente a metà marzo, così non devo neanche festeggiare il mio compleanno?


mercoledì 12 gennaio 2011

Clint Eastwood

Il 2011 tutto sommato è iniziato abbastanza bene.
Stavo trotterellando per una sala gremita di gente, il 31 dicembre, quando è scattata l'ora X, davo una mano – senza fare danni! - in un ristorante da 60 coperti in bassa collina e stavo bene ad asciugare montagne e montagne di bicchieri.
Ho anche fatto, ad inizio anno, una cosa che non facevo da tempo e che rappresenta davvero un buon miglioramento rispetto al trend solito, vero Uic?!
Mi dicono che anche gli oroscopi sono favorevoli, quello di Rob è sempre un po' criptico (Rob, gioia, “assicurarti che i tuoi desideri tengano gli occhi ben aperti. “ non è esattamente un consiglio all'acqua di rose..), e se altre calamità non si frappongono tra me e il buonumore, potrebbe essere anche un buon anno.
Che, detta al 12 di gennaio, potrebbe apparire asserzione incauta, ma voglio essere ottimista e pensare che tutto volga al meglio.
Il mio Karma ne ha bisogno.
Non farò la lista dei buoni propositi, diciamo che ci sono un paio di cose che mi piacerebbe concretizzare, come dare un taglio agli esami all'Università, stabilizzarmi con il lavoro quel tanto che mi permetta di prendere impegni a medio termine, ascoltare generi musicali che non conosco e magari aggiornare il blog con regolarità.
Direi che non ci vuole un impegno disastroso. Solo un po' di marziale autodisciplina.


sabato 16 ottobre 2010

Train in vain

Non è che abbia molto da raccontare, ultimamente.
Passata la novità del gattino, passato il dopo-vacanza in Irlanda, passato il trasloco non è che sia successo poi così tanto nella mia vita.
Diciamo che le mie giornate si spendono tra viaggi in treno, marciapiedi milanesi e poco tempo a casa a fare il bucato, le pulizie e a cazzeggiare online.
Beh, ho comprato un (altro) computer. Adesso nel mio microlocale sono a quota quattro - ma è meglio non fare domande.
Prendo il treno, pendolo tra la bassa provincia e la metropoli tentacolare, non mi arrabbio neanche più per la costanza quasi rassicurante dei ritardi delle ferrovie italiane. Ormai vado in stazione a qualsiasi ora, il mio treno è sempre in ritardo.
Ah, no, una cosa da raccontare posso anche averla, ma devo fare una digressione veloce.
Ho dato il mio primo bacio davanti ad un tramonto sul mare, sulla panchina del parco di un campeggio pugliese, in uno scorcio talmente romantico da alzare la glicemia, al ragazzo più ambito del campeggio. Beh, il più ambito per un buon quarto d'ora.
Era quello con la chitarra: quando lui raccoglieva il gruppo attorno alla "Canzone del sole", le mie amiche erano tutte lì a far pollaio nonostante fossero tutte accessoriate da fidanzati calciatori abbronzati e alla moda.
Finite le vacanze, la nostra emozionante storia d'amore, consumata in dieci giorni di limone duro rigorosamente vestiti, ha resistito poco all'inizio delle mie scuole superiori, la fine di settembre è stata anche la fine della nostra storia.
L'altra mattina arrivo sul binario tre, abbracciata dalla mia giacchetta pelosa, ancora un po' stropicciata dal sonno, e lo vedo. Mi saluta. Non abbiamo mai smesso in realtà di salutarci, ci mancherebbe, ma è strano comunque, sarà che sono anni che non ci parliamo, sono passati quindici anni da quella panchina al campeggio pugliese, e a parte una serata in cui per amicizie comuni ci siamo trovati allo stesso tavolo di un pub, le nostre strade non si sono  più incrociate.
Ieri mattina parcheggia la macchina vicino alla mia e mi aspetta per entrare in stazione. Due chiacchiere, senza convenevoli, ci siamo aggiornati sul cosa facciamo e dove viviamo adesso. Un po' come se questi ultimi quindici anni non fossero neanche passati.
Poi abbiamo preso treni in direzioni opposte.

giovedì 7 ottobre 2010

The cat came back

Un mese fa ho adottato un gattino. Un ragnetto magro e spelacchiato che mia cognata ha trovato in un fosso mentre faceva jogging, abbandonato con i suoi due fratellini da qualche progenie di operatrici erotiche a buon mercato.
Inizialmente il mio monolocale è stato invaso da lettiere bio, cibo med e da un'enorme gabbia-dépandance in cui accogliere il ragnetto e il fratellino in attesa di svezzamento e del ritorno dalle vacanze del mio di fratello, poi, circa un paio di settimane fa, mi libero della gabbia e il fratellino viene accolto come un principe dalla sua nuova famiglia adottiva, così io e Maki restiamo a quattr'occhi.
Che diventano sei e, saltuariamente, otto o dieci.
Perché io lavoro, e vuoi lasciare il piccolo - che nel frattempo s'è impadronito di qualsiasi superficie morbida della casa - tutto solo e triste durante il giorno?
Comincia così il pellegrinaggio al cospetto del piccolo fenomeno da baraccone del parentado prossimo che si stringe e commuove nel vederlo, in ordine sparso, rosicchiare le mie scarpe, distruggere i miei libri, attaccarsi alle mie tende e fare Tarzan, farsi le unghie sul mio divano e sfondarsi di cibo.
Mia madre, mio padre, mio cugino, mio fratello.. Alle volte anche la vicina.
Ma va bene, se avete voglia di fargli compagnia non c'è problema.
L'altra sera sono sul treno che mi riporta a casa, stropicciata e sfatta dopo una giornata di lavoro, dormicchio e penso al gelato che è nel freezer. Ci penso come premio consolatorio per una giornata che mi ha caramellata, letteralmente. Penso a gustarmelo, un cucchiaino alla volta, una goccia di cioccolata dopo l'altra.
Arrivo a casa, metto via la macchina e entro. Ci sono i miei genitori, entrambi, mia mamma con in braccio il ragnetto dormiente.
"Gli facevamo compagnia" dicono. "Abbiamo cenato qui per non lasciarlo da solo" dicono. "Ah, ti abbiamo finito il gelato".

sabato 1 maggio 2010

Hand in my pocket

Dettagli di questo periodo in ordine casuale.

- sono finalmente andata a trovare la mia amicicia Chiarina.
Chiarina abita su per i monti attorno a Lecco, non ci vediamo da un po', aver smesso di lavorare insieme, di combattere spalla a spalla contro le forze del male del visitatore di mostre milanese ci ha distolte dagli importanti discorsi sull'olio di jojoba e sui weekend depurativi d'urto.
La mia gita in montagna si è risolta sulla poltrona della camera da letto guardando quasi tutta la prima serie di Ally McBeal e mangiando una quantità a dir poco imbarazzante di fragole;

- tralasciamo che è il Primo Maggio e io lavoro, anche se lavoro sapendo di essere in facebookkiana compagnia dei miei colleghi sparsi per i vari spazi espositivi, ho ricevuto finalmente il contratto firmato dal mio boss che dichiara di darmi lavoro per un anno. Un anno. Intero. Dodici mesi. Dodici mesi in cui non posso più dichiararmi precaria. Diciamo precarietta. Stasera brindo a questo anno intero guadagnato interamente con le mie mani bisognose di un'estetista e con questa testa bisognosa di un parrucchiere;

- mi sono fugacemente innamorata di un commesso pavese, che ho trovato a sistemare la sezione teatro di una libreria proprio quando io dovevo acquistare una copia di "Sogno d'una notte di mezza estate" di quello che ad ogni pagina diventa il mio drammaturgo preferito.
Molto carino, molto gentile e molto paziente con me che cercavo l'edizione "il più economica possibile" (lui ride) e poi la lasciavo cadere perché attrezzata solo di arti in pasta frolla;

- continuo a vivere nel disordine estremo, nel bunjee-jumping del caos, nel free-climbing della disorganizzazione casalinga a causa di brevissime visite al focolare domestico che però ho provveduto a rifornire di radio nuova, bollitore nuovo, pentole nuove, cappa nuova, mobili e pensili e tavoli nuovi - ancora impacchettati, quasi;

- ho ripreso le lezioni in Università e mi sono resa conto che nessun corso ti preparerà mai ad affrontare la realtà spigolosa della vita, che molte sono teorizzazioni meravigliose assolutamente volatili e prive di ogni pratica utilità, di cui ci si impadronisce per un vago senso di masochismo proprio dell'essere umano in quanto tale. E ho anche deciso che i ventenni sono completamente e insindacabilmente rincoglioniti dal bombardamento mediatico.


venerdì 9 aprile 2010

Over the rainbow

Mannaggia a me e a quando decido di andare al cinema.
Ieri sera io e la Isa decidiamo di andare a vederci un film, una serata tra adulti, senza il piccolo Attila che prende di prepotenza il telecomando per vedere cani blu e gatti rosa che si travestono da fragole in trip da acido, senza genitori che ti interrompono ululando estasiati vedendo piccolo Attila che si è spalmato la cena sulla camiciola da ometto che ha addosso e senza il minimo ritegno, perché le due trentenni hanno deciso di spendere due ore con Robert Pattinson a tutto schermo.
Il film è "Remember me" che è vero che ha l'idolo delle teenager per protagonista, ma, dannazione, è il film più triste della storia! Anche più triste di "P.S. I love you", in cui lui muore e lei deve superare il lutto ricevendo una volta al mese un messaggio cartaceo che le ricorda quanto favoloso fosse il marito morto. Anche più triste del "Principe delle maree" in cui Nick Nolte lascia Barbra Streisand dicendole che la ama, ma ama anche la moglie, "solo da più tempo".
Beh, vedere questo film è stato straziante. Alzarsi a luci accese e vedere la valle di lacrime sulle poltrone dietro di noi è stato ancora più straziante. Ma la roba peggiore è rendersi conto che ho trent'anni suonati e mi faccio prender male da un film triste. 



martedì 9 marzo 2010

Don't drag me down

Mi ricordo chiaramente che, dopo aver traslocato dalla Casa dei Mostri dove abitavo prima alla Micromansarda in cui abiterò fino alla fine di questo mese, ho preso mia madre e le ho detto chiaramente che per il prossimo trasloco avrei pagato qualcuno per farlo al posto mio.
La scorsa settimana, mentre stendevo la terza mano di verde acido sulle pareti della mia nuova-vecchia cucina, con la faccia costellata di macchiette di vernice, le ho ricordato l'episodio e lei, sorridente con una bella tazza di te in mano guardandomi lavorare, mi ha risposto: "Ma và, ci pensiamo noi, no?"
Certo certo. Intanto lei beve il te.
Sapevo che avrei dovuto pagare un estraneo, qualcuno che non sa assolutamente niente di me se non che ho bisogno di ottimizzare gli spazi e le scorte di oggetti.
Qualcuno che entri di soppiatto nel mio appartamento mentre sono altrove e prepari gli scatoloni di ciò che posso portarmi nella mia nuova-vecchia casa, e che butti per sempre quello che non ci sta, qualcuno che non abbia cuore e che non si lasci convincere a tenere la bomboniera di fiori secchi del matrimonio estivo del mio stepbrother (fratellastro è proprio una brutta parola), perché tanto quello sta in Inghilterra, non s'offende se la disintegro, qualcuno che non si lasci intenerire da una tazza frantumata, tenuta insieme dalla colla, inutilizzabile se non come ennesimo portapenne, qualcuno che sia più duro di me e che non si tenga anche la tshirt lisa e stralisa che ho comprato in seconda superiore solo perché ci è affezionato.
Qualcuno che non sia io, insomma.
Invece no, l'ottimizzatrice della forza lavoro beve te e mi guarda mentre trasbordo carichi infiniti di scatole contenenti niente di utile, ma tutto ciò che ha un vago valore sentimentale - tutta quell'oggettistica che "non si sa mai, potrebbe servire, un giorno" e che, nonostante io mi trasferisca ogni volta in spazi più piccoli, riappare in tutta la sua confusione e si va a sommare a quello che nel frattempo ho comprato perché non trovavo quello che stavo cercando, perso nei meandri del disordine.



mercoledì 17 febbraio 2010

Instant karma

Questa mattina, schiacciata sul mio sedile in metropolitana, tra una signora che leggeva il giornale come fosse in poltrona e un tizio abbastanza giovane che deve aver abbandonato da tempo la barbara abitudine di soffiarsi il naso, riflettevo sul fatto che la mia collega Fra pensi che io sia più zen del solito.
Ho notato che la signora stava sconfinando prepotentemente in quello che era il mio mezzo metro d'aria ma non le ho inserito un gomito tra le costole. E neanche mi sono girata a regalare un fazzoletto al giovane smoccolone.
Neanche l'ho pensato.
Pochi minuti fa un signore mi ha costretto a spiegargli dove trovare un libro, dove trovare la stazione di Cadorna, dove trovare la Triennale dieci volte, perché non mi ascoltava. E non mi sono arrabbiata.
Non è da me, davvero.
Sarà che sto invecchiando, ma non ho più voglia di arrabbiarmi per qualche invasione del mio spazio vitale, non ne vale la pena.
Meglio incanalare le reazioni innervosite nel meraviglioso universo dell'ironia e farsi gioco del malcapitato cafone.
Bookshop moderatamente pieno, io sono in cassa con una collega. Una signora paga il catalogo e il manichino a fianco a lei stizzito chiede dove sia la coda che non si capisce.
Io: "Mi scusi, presumevo riusciste a formare una coda da soli..." Ti insegnano all'asilo a fare la fila.
Manichino: "Presumeva male"
Eh, già, e io che pensavo che il pollice opponibile li rendesse abbastanza autonomi per cavarsela da soli.