lunedì 20 giugno 2011

Monkey wrench

Ad un certo punto della mia adolescenza immusonita ho avuto la brillante idea di infilarmi in una camicia di flanella a quadrettoni bianchi e blu, di indossare jeans sdruciti e vecchie adidas distrutte, tralasciare il buonumore e struggermi perché non avrei potuto più acquistare album nuovi dei Nirvana.
Già, s'erano sciolti.
Neanche darmi il gusto dell'attesa.
Un bel giorno, Cobain decide di scappare dalla clinica in cui era stato mandato a disintossicarsi e rifugiarsi nel patio di casa, canna del fucile tra le otturazioni, e via, anni di buona musica distribuiti sul soffitto.
Vedova inconsolata e inconsolabile, vago per negozi di musica più o meno forniti e trovo un nome famigliare.
Dove l'ho già sentito? Dove ho già visto questa copertina beigiolina, questa specie di pistola? Lo compro.

A costo di riversarmi addosso l'autogol dell'atteggiamento da vecchia befana, ricorderò che i tempi erano diversi: c'erano i negozi di dischi, la musica si acquistava sotto forma di ciddì, operazione che prevedeva l'interazione verbale e fisica con un commesso, il pagamento attraverso cartamoneta e il ritorno a casa con la custodia ancora chiusa nella plastica, magari in bicicletta, per poi chiudere fuori il mondo dalla stanza e gustarsi il primo ascolto tramite un arnese di rara bruttezza qual era lo stereo.
Sto parlando più o meno del 1996.

A pensarci mi sembrano passate ere geologiche, neanche secoli: (fortunatamente) ho abbandonato la flanella in tutte le sue declinazioni, ormai butto i jeans lisi e strappati e con malcelata difficoltà anche le vecchie adidas. Sono cresciuta, insomma.
Ma loro ci sono, sempre.
Per questo, in attesa di una conferma di orario da parte del mio socio a delinquere, nel delirio di una telefonata di novità impellenti, quando la Zia Isa mi dice che il socio non mi avrebbe raggiunta ("bellastella, ha mal di denti") decido che sarei entrata lo stesso, che avrei tralasciato ogni indugio e che avrei visto comunque il concerto, anche da sola, senza soldi e affamata.
Loro ci sono da sempre, mi devo fare coraggio: borsa a tracolla entro in quello che a prima occhiata è chiaramente un parcheggio riadattato ad "arena concerti", con il cemento che da la sola impressione di aver visto momenti di raro calore nell'andare del pomeriggio, idea chiaramente disegnata sulle facce stravolte di chi dorme a terra.
I primi venti minuti sono i peggiori: sono da sola, non conosco nessuno, la gente sembra super presa bene e io mi sento la zia sfigata di tutti quei ragazzetti a petto nudo o in costume che si aggirano ridendo per il parcheggio e non faccio che ripetermi "belìn che sfigata che sei" con il tipico accento genovese che affiora quando penso di me cose brutte.
Poi prendo la decisione giusta: bere una birretta.
Non pubblicizzo l'alcol e in periodi di lucidità mentale quella neanche avrebbe il diritto di chiamarsi "birra" semmai "sciacquatura di piatti alcolica" ma sono sola, triste, non ho amici e nessuno con cui condividere quello che per me sarà il concerto dell'anno, cosa dovevo fare a parte aspettare di vedere che l'unico più patetico di me avrebbe suonato con il suo bel petto di pollo nudo per penultimo dall'alto dei suoi sessantacinque anni biondi? Andare a casa, triste e beffata dalla sfiga nera?
Onestamente, col cazzo.
Ho preso una birra gelata per una cifra spropositata, mi sono messa in mezzo alla folla e ho assaporato tutto il gusto dell'attesa.
Prima i Social Distortion, poi Iggy Pop e poi loro, la magia, la meraviglia, il piacere auditivo e orale, la carica erotica che è esplosa con l'intro di "Burning Bridges".


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